C’è un’antica e naturale vinificazione che negli ultimi anni è in pieno fermento, quella utilizzata dai nostri nonni, quella dei vini che rifermentavano in bottiglia sui propri lieviti (“sur lie” per i francesi), dei vini torbidi col residuo, quella che dalle nostre parti crea l’amato “frizzantino col fondo”.
Moda o amore? Sicuramente ci sono le tendenze del momento, come quelle dei “finti alternativi” o dei “naturalisti intransigenti”, in alcuni Paesi come Stati Uniti e Australia gli appassionati stanno letteralmente impazzendo per questi Pétillant Naturel. Sui social network #PETNATè uno degli hashtag maggiormente usati del mondo del vino, e gli stessi produttori confermano il trend in crescita della sua domanda.
Interessanti a riguardo sono i racconti che Massimo Zanichelli (giornalista, docente di cinema, scrittore e documentarista) riporta nel suo libro “Effervescenze, storie e interpreti di vini vivi”, (Ed. Bietti, pp. 489) in uscita in questi giorni. Una sorta di viaggio, più reale che virtuale, alla scoperta del metodo ancestrale italiano, un percorso di riscoperta di quei territori che per tradizioni anche familiari, vinificavano col fondo. Un po’ guida enologica, un po’ racconto storico, un po’ manuale del vino, ma soprattutto voce di un pezzo d’Italia enoica, in una sorta di storytelling on the road tra cantine e vigneti.
Sessantacinque i vigneron incontrati, oltre 200 vini (vivi, genuini, emozionanti!) raccontati, un cammino nel colfóndo trevigiano, sotto il cielo frizzante dell’Emilia, con un intermezzo mantovano, andando su e giù per le colline dell’Oltrepò Pavese.
Il libro si apre e si chiude con due dei “grandi vecchi” del vino italiano, quel Luigi Gregoletto, classe 1927, memoria storica del vino col fondo e Lino Maga, classe 1931, ed il suo iconico Barbacarlo.
Zanichelli è partito dal territorio di Conegliano Valdobbiadene, patria elettiva del Prosecco, quel DOCG che si fa in collina, da viticultura eroica, quel colfóndo che merita più rispetto, vino della casa di tutti che è già conosciuto dalla fine dell’ottocento.
Vorrei partire proprio da alcune di queste storie che ho trovato molto reali e vere sulla base della mia esperienza, dei miei incontri ed assaggi, avendo bene in mente le parole di Gigi Miracol: “Quel un vin de butilia che era il vanto delle famiglie contadine, chiamato così per distinguerlo dal comune vino di tutti i giorni spillato dal caretel bocaleta dopo bocaleta(dalla botticella caraffa dopo caraffa). Era il vino delle occasioni importanti, delle festività, da tirare fuori all’arrivo del prete, del medico o dei parenti lontani. Prodotto con le uve migliori, le più mature cernite vinificate a parte con aggiunte di poca uva sovramaturata tramite torcitura del grappolo o taglio del tralcio in pianta, il tutto teso ad aumentare aromi e gradazione alcolica. Il freddo fermava la fermentazione, la stagionatura in legno aumentava sia il colore che la complessità e lo rendevano armonico, non si aprivano prima della vendemmia successiva, la bolla era lieve quasi spenta e serviva ad elevare sapori ed aromi”